mercoledì 17 marzo 2010

Per essere filosofi ci vuole un maestro



Insegnare vuol dire sedurre. Il docente deve trasmetterci la passione.
...Come ho rivissuto lo splendido percorso con Andreas...GRAZIE ANCORA!!

«C’è più da fare a interpretare le interpretazioni che a interpretare le cose, e ci sono più libri sui libri che su altri argomenti: non facciamo che commentarci a vicenda. Tutto pullula di commenti; di autori, c’è grande penuria»: adesso più che mai le parole di Montaigne, nella splendida e ormai storica traduzione di Fausta Garavini, suonano di grande attualità. Proprio in questi ultimi anni, a causa di una serie di insensate e sciagurate riforme, i classici della filosofia e della letteratura occupano un posto sempre più marginale nelle scuole e nelle università. Gli studenti percorrono le tappe della loro carriera nutrendosi di manuali, commenti, antologie, bignamini di ogni genere. Sentono parlare e leggono notizie di oggetti, i classici, di cui, nei casi migliori, conoscono solo qualche pagina presente nei numerosi «florilegi» che hanno invaso il mercato dell’editoria scolastica e universitaria.

Purtroppo questa tendenza non nasce dal nulla. Al contrario: diventa espressione di una società sempre più stregata dal mercato e dalle sue leggi. La scuola e le università sono state equiparate alle aziende. I presidi e i rettori, spogliati dei loro panni abituali di professori, vestono gli abiti di manager. Spetta a loro far tornare i conti, rendere competitive le imprese di cui sono a capo. Innanzitutto il «profitto»: bisogna rispettare i tempi nei parametri previsti dai nuovi protocolli ministeriali.

Ma allora che fare? Invitare gli studenti a lavorare di più per compiere il loro itinerario nei tempi e nei modi migliori? Oppure ridurre le difficoltà per rendere più agevole il raggiungimento del traguardo? Questi anni di applicazione della riforma hanno ormai rivelato con chiarezza che è stata la scelta della semplificazione, per non dire della banalizzazione, a dettare legge negli atenei. Fatta salva qualche piccola isola, ormai la pedagogia edonistica ha incancrenito i gangli vitali dell’insegnamento. Pensare di inserire la lettura integrale dei «Saggi» di Montaigne o di qualche dialogo di Platone potrebbe essere considerato come una seria minaccia alla prosperità dell’azienda e l’incauto professore potrebbe finire anche sotto «processo».

Eppure, come ricorda George Steiner, sembra impossibile concepire qualsiasi forma di insegnamento senza i classici. L’incontro tra un docente e un discente presuppone sempre un «testo» da cui partire. Senza questo contatto diretto sarà difficile che gli studenti possano amare la filosofia o la letteratura e, nello stesso tempo, sarà molto improbabile che i professori possano esprimere al meglio le loro qualità per stimolare passione e entusiasmo nei loro allievi. Si finirà per spezzare definitivamente quel filo che aveva tenuto assieme la parola scritta e la vita, quel circolo che ha consentito a giovani lettori di imparare dai classici ad ascoltare la voce dell’umanità e, poi col tempo, dalla vita a comprendere meglio i libri di cui ci si è nutriti. Gli assaggi di brani selezionati non bastano. Un’antologia non avrà mai la forza di suscitare reazioni che solo la lettura integrale di un’opera può provocare.

E all’interno del processo di avvicinamento ai classici, anche il professore può svolgere un ruolo importantissimo. Basta leggere le biografie o le autobiografie di grandi studiosi per trovare quasi sempre un riferimento a un docente che durante gli studi liceali o universitari è stato decisivo per orientare gli interessi verso questa o quella disciplina. Ognuno di noi ha potuto sperimentare quanto l’inclinazione per una specifica materia sia stata, molto spesso, determinata dal fascino e dall’abilità dell’insegnante...

...L’insegnamento implica sempre una forma di seduzione. Si tratta, infatti, di un’attività che non può essere considerata un «mestiere», ma che nelle sue forme più nobili e più autentiche presuppone una vera e propria vocazione. «Una lezione di cattiva qualità — ammonisce George Steiner—è quasi letteralmente un assassinio e, metaforicamente, un peccato». L’incontro autentico tra un maestro e un allievo non può prescindere dalla passione e dall’amore. «Non si impara a conoscere — ricorda Max Scheler citando le parole da lui attribuite a Goethe — se non ciò che si ama, e quanto più profonda e completa ha da essere la conoscenza, tanto più forte, energico e vivo deve essere l’amore, anzi la passione».

Oggi purtroppo le aziende dell’istruzione, più attente alla quantità che alla qualità, chiedono ben altro ai loro docenti. Il processo di burocratizzazione che ha pervaso scuole e università prevede per prima cosa la partecipazione attiva alla cosiddetta vita amministrativa. Lo studio e la ricerca sembrano un lusso da negoziare con le autorità accademiche. Quel fenomeno che aveva tenuto assieme, fino a non molti anni fa, insegnamento e lavoro scientifico nelle università italiane appare sempre più un miracolo improbabile.

Non è impossibile immaginare che le stesse biblioteche — quei «granai pubblici », come ricordava l’Adriano della Yourcenar, in grado di «ammassare riserve contro un inverno dello spirito che da molti indizi, mio malgrado, vedo venire » — finiranno, a poco a poco, per trasformarsi in polverosi musei. All’interno di questo contesto sarà difficile immaginare un docente che insegni con amore e passione e studenti pronti a lasciarsi infiammare. «La gente —annotava Rilke—(con l’aiuto di convenzioni) ha dissoluto tutto in facilità e dalla facilità nella più facile china; ma è chiaro che noi ci dobbiamo tenere al difficile ». Il sapere, come ricordava Giordano Bruno e come ricordano tanti classici della filosofia e della letteratura, non è un dono ma una faticosa conquista.

domenica 14 marzo 2010

La scuola dei 5 in condotta



di Don Mazzi
Siamo tutti enormemente felici per lo tsunami dei cinque in condotta che ha sepolto il primo quadrimestre della scuola italiana, per le smisurate insufficienze in matematica e nelle lingue straniere, per i tre studenti su quattro che alle superiori hanno grosse difficoltà e per i 63.000 ragazzi (10.000 in più dello scorso anno) per pseudobullismo rischiano la bocciatura.
La scuola che si affida alle insufficienze e alle pagelline cimiteriali, dovrebbe farsi delle domande serie. In America sbattono fuori dalla scuola gli insegnanti che bocciano tanto. Noi invece li portiamo in palmo di mano.
Deve essere chiaro per tutti che la condotta e il profitto vanno messe ai primi posti, ma deve essere altrettanto chiaro per tutti che se i primi ad andare ad insegnare demotivati sono i professori, ci vuole molta ipocrisia nel coprire le demotivazioni con i cinque in condotta.
Non abbiamo ancora capito in Italia che i nostri figli passano i quindici anni più importanti della loro vita dentro queste strutture. La scuola moderna non può basarsi sui metodi del passato e legarsi ad una visione di società che dava alla scuola molto meno protagonismo di oggi.
È cambiato il mondo, ma soprattutto sono cambiati gli adolescenti. Va ribaltata la mentalità che vige ancora a livello centrale di itinerari più legati alla burocrazia, alla cultura illuminista e alla sistemazione sindacale degli insegnanti che alle vere esigenze e dotazioni da offrire a giovani che devono attraversare la storia in un momento di grandissima immigrazione e trasformazione tecnologica.
Se vogliamo essere ancora più lungimiranti e corretti, è dalla preparazione universitaria che partirà l’atteggiamento radicalmente diverso dei docenti. Le istituzioni scolastiche oggi sono fortini, avamposti, luoghi di sperimentazione, di ricerca, di voglia di rischiare.
È tra i dieci e i venti anni che impostiamo l’avvenire dei nostri figli, e non possiamo solo accontentarci di attrezzarli solo nelle lingua inglese e nelle matematiche. È lo stato di salute della nostra Italia, il quoziente di civiltà e di cultura che va innervato nel DNA di questi giovanotti esplosivi.
È assurdo imprigionare nei banchi di scuola per ore e ore, nel pieno della esplosione fisica e psichica, uomini e donne che avrebbero bisogno di ben altra atmosfera per riempire il loro cuore e la loro anima di nozioni che si trasformeranno poi in esperienze di vita. È comico vedere un docente dietro la sua cattedrina traballante, con la faccia del finto aggressivo urlare e minacciare note sul libretto e invii al dirigente.
I venti puledri di razza che sono dall’altra parte, non possono essere blanditi con un otto in latino, minacciati con un cinque in condotta. I ragazzi oggi, se sono normali, vanno a scuola malvolentieri. Purtroppo!
In questi giorni pensavo a quanti allievi di don Milani si sarebbero salvati dalle grinfie e dalle ire dei professorini (longobardi!). Amici mi raccontano di un docente di latino che gira tronfio per i corridoi della scuola, forte della quota di bocciati in latino nella sua classe: dodici su ventisei hanno un tre tondo (pare qualche professore si diverta a giocare anche con il tre meno o il tre più!).
Questi signori andrebbero radiati. Se la scuola avesse coscienza e criterio sono proprio questi allievi che andrebbero salvati, cambiati e aiutati.
Vi sono infiniti modi per bocciare qualcuno. Ve ne sono altri infiniti per motivarlo e promuoverlo. Quando applicheremo queste seconde modalità?

giovedì 4 marzo 2010